domenica 12 ottobre 2014

5 cose che imparato guardando la puntata di Report sulla pizza



Domenica 5 ottobre 2014, Milena Gabanelli ci ha introdotto in un viaggio attraverso il meraviglioso mondo della pizza italiana, che fa molto il paio con la puntata della corsa stagione dedicata al caffè. Potete recuperarla sul sito della Rai. Non qui, questo è il mio blog, non un servizio on demand.




Sorvolando sulle consuete polemiche che sorgeranno sul mestiere del giornalista, sul benaltrismo che ne consegue e gli innumerevoli rivoli di parole per giustificare questo e quello da ambo le parti delle barricate di un delle mille battaglie che si combattono tra corporazioni (in questo caso giornalismo d’inchiesta vs ristorazione), posso dire che personalmente ho imparato molto da questa oretta e mezza di approfondimento sul vessillo italico bianco rosso e verde sui piatti dell’orbe terracqueo conosciuto, alcune di queste cose sono mezze sorprese, altre tragiche conferme.



1. A Napoli la pizza fa schifo come in qualunque altra parte d’Italia (e non solo)

Bando ai pregiudizi, quando si parla di pizza (o di caffè, come l’inchiesta della scorsa edizione) non ci dovrebbe essere posto per mangiare una pizza più buona che il luogo di nascita della pizza Margherita, uno dei piatti più buoni mai concepiti in relazione alla brevità della ricetta (se la gioca con l’amatriciana nel campionato italiano di “rivoli di olio e d’amore scivolano verso il mio mento “).


Tuttavia, a differenza dei ristoratori cinesi che, superata l’offesa razzista dello stereotipo, in South Park si scoprono ottimi costruttori di muraglie, non sembra che basti essere nati a Secondigliano o battezzati al Vomero, per fare una eccellente pizza, anzi pur non mancando pizzerie storiche, campioni mondiali  o artisti dell’impasto, tra una lievitazione non adeguata o ingredienti scadenti pochi pizzaioli della napoletana doc passano l’esame. Questa volta però è solo l’orgoglio ad essere ferito perché per come fanno la pizza nel resto d’Italia non c’è da stare allegri. Per noi clienti, intendo.


2. Viva la pizza (congelata)

Fa molto strano entrare in un locale attratti dai profumi dai colori e da quel languorino che ti farebbe andare bene anche una scarpa fritta e scoprire che il gustoso sapore di quel trancio farcito da due euro e cinquanta in realtà è indotto dai tuoi bisogni famelici e dalla mancanza di alternative, nonché dal mancato processo delle informazioni visive suggerirti che del pomodoro è rimasto il colore mentre la bufala che ha fornito il latte per quella mozzarella (?) è deceduta mesi addietro. 






3. I pizzaioli non sanno cosa fanno (ve la sentite di condannarli?)

Ah, i sapori di una volta, il mestiere che si impara con il duro apprendistato e le ricette tradizionali tramandate di padre in figli! Se oggi non proprio tutti i pizzaioli sono figli di pizzaioli, molti di questi imparano la tecnica praticamente sul campo, ovviamente con i clienti come cavie. Sì perché non solo non esistono corsi nelle scuole che preparano per il settore della ristorazione (se non corsi sponsorizzati da questo o quell’ente formativo, qualche associazione di categoria, molti docenti improvvisati, spoiler: vedi al punto 4) ma gli stessi pizzaioli storici non sembrano dei maestri affidabili.



Spesso, ma non è il caso solo della pizza, la scelta di usare taluni ingredienti piuttosto che altri è affidata al buon vecchio motto” si è fatto sempre così”, perciò mai chiedere spiegazioni o chiarimenti troppo approfonditi al pizzaiolo, men che meno se italiano, se è egiziano è caso pure che qualche libro o ricetta se li sia studiati o ha un passato da cuoco. Farine? Solo la doppio zero, già la zero è una raffinatezza per eccentrici. Olio Extravergine? Ma quando mai, troppo pesante! Molto meglio quello del boccione da 5 l di girasole! Oppure quello di soia per una pizza al bacio! Mozzarella? Formaggio tedesco ovviamente! San Marzano? Ma sei matto? Vai di concentrato! Il fumo nel forno? Ci facciamo sostare un po’ la pizza così mangiamo pure affumicato!


4. Non esiste la figura professionale del pizzaiolo

Ma il pizzaiolo è un cuoco o un semplice assemblatore



 Mentre in pratica spesso molti esercenti che vendono pizza non sono i “manifattori” della stessa, un pizzaiolo in teoria è quello che sceglie gli ingredienti, li elabora, li combina per creare ogni volta un prodotto unico, che racconta anche una storia, spesso legata al territorio e questo costituisce la cultura del cibo che, a parole, esportiamo nel mondo e serviamo quotidianamente sulle nostre tavole. Tuttavia in Italia non sembra esserci un iter istituzionalizzato che riconosca questa figura, diversa dal cuoco ma non assimilabile ad un operatore (?) di un qualunque fast food. Italia, SVEGLIAAA!!!


5. La qualità si paga (ma alla fine…paga!)

Non tutto è perduto. Nella deriva generale della leggenda che vuole l’Italia patria del buon mangiare e del cibo sano, c’è effettivamente qualche baluardo che si regge a difesa della tradizione e della reinterpretazione in chiave moderna del concetto di ristorazione, ivi compresa il sottovalutato mondo della pizza. Attenzione alla qualità delle materie prime, rispetto delle procedure di esecuzione della lievitazione degli impasti, sperimentazioni audaci per esaltare il sapore senza l’uso di additivi artificiali, rispetto del consumatore che viene trattato come un ospite al quale si vuole offrire un’esperienza sensoriale.



Se questa fosse la cultura proposta nelle scuole e nei corsi laddove essa latita e nella terra dove solo una sparuta rappresentanza di difensori della Napoletana Verace cerca di diffondere un minimo di rispetto per il prodotto, potremmo veramente essere orgogliosi di essere la Terra della Pizza e rivendicare, con schiena dritta e sguardo fiero, di esserne il baluardo del tricolore del gusto e del sapore italici!