Domenica 5 ottobre 2014, Milena Gabanelli ci ha
introdotto in un viaggio attraverso il meraviglioso mondo della pizza italiana,
che fa molto il paio con la puntata della corsa stagione dedicata al caffè.
Potete recuperarla sul sito della Rai. Non qui, questo è il mio blog, non un
servizio on demand.
Sorvolando sulle consuete polemiche che sorgeranno sul
mestiere del giornalista, sul benaltrismo che ne consegue e gli innumerevoli
rivoli di parole per giustificare questo e quello da ambo le parti delle
barricate di un delle mille battaglie che si combattono tra corporazioni (in
questo caso giornalismo d’inchiesta vs ristorazione), posso dire che
personalmente ho imparato molto da questa oretta e mezza di approfondimento sul
vessillo italico bianco rosso e verde sui piatti dell’orbe terracqueo conosciuto,
alcune di queste cose sono mezze sorprese, altre tragiche conferme.
1. A Napoli la pizza fa schifo come in qualunque altra parte
d’Italia (e non solo)
Bando ai pregiudizi, quando si
parla di pizza (o di caffè, come l’inchiesta della scorsa edizione) non ci
dovrebbe essere posto per mangiare una pizza più buona che il luogo di nascita
della pizza Margherita, uno dei piatti più buoni mai concepiti in relazione
alla brevità della ricetta (se la gioca con l’amatriciana nel campionato
italiano di “rivoli di olio e d’amore scivolano verso il mio mento “).
Tuttavia, a differenza dei ristoratori cinesi che, superata l’offesa razzista
dello stereotipo, in South Park si scoprono ottimi costruttori di muraglie, non
sembra che basti essere nati a Secondigliano o battezzati al Vomero, per fare
una eccellente pizza, anzi pur non mancando pizzerie storiche, campioni
mondiali o artisti dell’impasto, tra una
lievitazione non adeguata o ingredienti scadenti pochi pizzaioli della napoletana
doc passano l’esame. Questa volta però è solo l’orgoglio ad essere ferito
perché per come fanno la pizza nel resto d’Italia non c’è da stare allegri. Per
noi clienti, intendo.
2. Viva la pizza (congelata)
Fa molto strano entrare in un
locale attratti dai profumi dai colori e da quel languorino che ti farebbe
andare bene anche una scarpa fritta e scoprire che il gustoso sapore di quel
trancio farcito da due euro e cinquanta in realtà è indotto dai tuoi bisogni
famelici e dalla mancanza di alternative, nonché dal mancato processo delle
informazioni visive suggerirti che del pomodoro è rimasto il colore mentre la
bufala che ha fornito il latte per quella mozzarella (?) è deceduta mesi
addietro.
3. I pizzaioli non sanno cosa fanno (ve la sentite di condannarli?)
Ah, i sapori di una volta, il
mestiere che si impara con il duro apprendistato e le ricette tradizionali
tramandate di padre in figli! Se oggi non proprio tutti i pizzaioli sono figli
di pizzaioli, molti di questi imparano la tecnica praticamente sul campo,
ovviamente con i clienti come cavie. Sì perché non solo non esistono corsi
nelle scuole che preparano per il settore della ristorazione (se non corsi
sponsorizzati da questo o quell’ente formativo, qualche associazione di
categoria, molti docenti improvvisati, spoiler: vedi al punto 4) ma gli stessi
pizzaioli storici non sembrano dei maestri affidabili.
Spesso, ma non è il caso
solo della pizza, la scelta di usare taluni ingredienti piuttosto che altri è
affidata al buon vecchio motto” si è fatto sempre così”, perciò mai chiedere
spiegazioni o chiarimenti troppo approfonditi al pizzaiolo, men che meno se
italiano, se è egiziano è caso pure che qualche libro o ricetta se li sia
studiati o ha un passato da cuoco. Farine? Solo la doppio zero, già la zero è
una raffinatezza per eccentrici. Olio Extravergine? Ma quando mai, troppo
pesante! Molto meglio quello del boccione da 5 l di girasole! Oppure quello di
soia per una pizza al bacio! Mozzarella? Formaggio tedesco ovviamente! San
Marzano? Ma sei matto? Vai di concentrato! Il fumo nel forno? Ci facciamo
sostare un po’ la pizza così mangiamo pure affumicato!
4. Non esiste la figura professionale del pizzaiolo
Ma il pizzaiolo è un cuoco o un
semplice assemblatore
Mentre in pratica spesso molti esercenti che vendono
pizza non sono i “manifattori” della stessa, un pizzaiolo in teoria è quello
che sceglie gli ingredienti, li elabora, li combina per creare ogni volta un
prodotto unico, che racconta anche una storia, spesso legata al territorio e
questo costituisce la cultura del cibo che, a parole, esportiamo nel mondo e
serviamo quotidianamente sulle nostre tavole. Tuttavia in Italia non sembra
esserci un iter istituzionalizzato che riconosca questa figura, diversa dal
cuoco ma non assimilabile ad un operatore (?) di un qualunque fast food.
Italia, SVEGLIAAA!!!
5. La qualità si paga (ma alla fine…paga!)
Non tutto è perduto. Nella deriva
generale della leggenda che vuole l’Italia patria del buon mangiare e del cibo
sano, c’è effettivamente qualche baluardo che si regge a difesa della
tradizione e della reinterpretazione in chiave moderna del concetto di
ristorazione, ivi compresa il sottovalutato mondo della pizza. Attenzione alla
qualità delle materie prime, rispetto delle procedure di esecuzione della
lievitazione degli impasti, sperimentazioni audaci per esaltare il sapore senza
l’uso di additivi artificiali, rispetto del consumatore che viene trattato come
un ospite al quale si vuole offrire un’esperienza sensoriale.
Se questa fosse
la cultura proposta nelle scuole e nei corsi laddove essa latita e nella terra
dove solo una sparuta rappresentanza di difensori della Napoletana Verace cerca
di diffondere un minimo di rispetto per il prodotto, potremmo veramente essere
orgogliosi di essere la Terra della Pizza e rivendicare, con schiena dritta e
sguardo fiero, di esserne il baluardo del tricolore del gusto e del sapore
italici!